LA PREGHIERA AI TEMPI DEL CONTAGIO, di Gilberto Squizzato
“Ho chiesto al Signore: ferma l’epidemia con la tua mano”.
Così papa Francesco (il nostro amatissimo Francesco!) al giornalista di Repubblica Paolo Rodari che l’ha intervistato dopo che la sua immagine di pellegrino solitario ed isolato per le vie di Roma ha fatto il giro del mondo.
Ce lo hanno anche mostrato, il nostro papa, mentre posava dei fiori sull’altare della Chiesa di San Marcello al Corso, dove è custodito il Crocifisso miracoloso che, nel 1522, venne portato in processione per la città affinché cessasse la Grande Peste che flagellava Roma.
Mi permetto qui di suggerire una modesta e sommessa riflessione a proposito di questo gesto e delle parole che l’hanno accompagnato, e anche delle aspettative miracolistiche che esse possono avere suscitato in una parte dei credenti, suscitando al tempo stesso scettico sconcerto in gran parte del mondo laico del tutto incredulo nei confronti di un Dio onnipotente, se avesse potuto intervenire per fermare l’epidemia “con la sua mano”, meglio avrebbe fatto a intervenire prima che il virus cominciasse a mietere vittime a seminare paura.
Non ho certo l’intenzione, e tanto meno la supponenza, di fare una lezione di teologia al vescovo di Roma né la speranza di persuaderlo a una revisione dei paradigmi di pensiero largamente ancora diffusi nel mondo cattolico (in modo quasi totalizzante nei preti e nella gerarchia) secondo cui l’onnipotenza di Dio significa per Lui la facoltà di interrompere le leggi naturali e di produrre eventi prodigiosi nel mondo naturale: per esempio obbligando il virus a fare fagotto e a trasferirsi altrove, cioè ad estinguersi. Il papa, come ogni credente, ha il diritto e il dovere di pensare e sentire come ritiene più giusto e più vero: se dunque è persuaso che a Dio non crea imbarazzo la domanda legittima di chi gli chiede perché abbia bisogno della preghiera papale per lasciarsi convincere a un atto di clemenza nei confronti di centinaia di milioni di uomini angosciati dall’epidemia fa bene a esprimersi secondo la sua coscienza e le sue convinzioni (ma, lasciatemi dire, anche secondo il suo immaginario religioso, visto che nessuno di noi può vivere senza immagini e senza metafore: anzi, questa la nostra grandezza di creature umane).
Personalmente sento e penso in modo diverso, anche a proposito della preghiera: da credente cristiano credo che non possiamo sottrarci a un confronto umile e onesto con la cultura scientifica, la quale rifiuta per principio e per metodo una visione del mondo in cui una potenza metafisica potrebbe in ogni istante contraddire e violare le leggi della natura. Mi permetto dunque di proporre qualche discreta ma convinta riflessione su quell’immagine del Dio potente che ha bisogno di preghiere e invocazioni per muoversi a pietà.
Come qualcuno sa, da diverso tempo molti teologi, pensatori e biblisti hanno sposato altri paradigmi, rinunciando a quell’immagine del Dio onnipotente (e capriccioso?) che, cosa non da poco, ha perfino lasciato morire il Cristo sulla croce senza fare nulla per salvarlo. Proprio lo scandalo della croce e dell’assenza del Padre del Calvario (e peggio sarebbe se fosse stato presente! che crudeltà!) ha convinto molti credenti ad archiviare l’immagine del Dio antico per aprire invece uno spazio di silenzio (questo esattamente è l’atteggiamento della mistica) per assolvere Dio da quel delitto e da tutti gli altri di spaventosa omissione. Per fare solo un caso: il piccolo Ailan (ricordate la sua fotografia?) annegato mentre scappava dalla Siria e annegato nel mare della Grecia. Possibile davvero che, potendo, un Dio davvero onnipotente se ne sarebbe stato con le mani in mano rifiutando di prestargli soccorso?
E’ la nostra immagine di Dio – sono convinto – ad essere oggi inadeguata e insignificante (proprio perché contraddetta dai fatti) con i convincimenti e la sensibilità dell’uomo moderno: e sicuramente incompatibile con i modelli di pensiero della scienza moderna che presenta la sua obbiezione impossibile da confutare: se Dio onnipotente abita il mondo soprannaturale come fa a interagire con quello naturale se non diventando egli stesso un essere fisico e naturale? E a nulla vale qui la scappatoia del Dio incarnato nell’uomo Gesù, come se quel Gesù non avesse mostrato nella sua carne la sconfitta del divino onnipotente.
Con tutto il rispetto per le immagini miracolose (ce n’è anche una nella mia città, la Madonna dell’Aiuto di Busto Arsizio, venerata dai tempi della peste del 1630 perché avrebbe fermato la pestilenza) e ammesso di non poter/dover chiamare Dio a rendere conto dei suoi terribili ritardi, sono anch’io convinto che abbia perso senso per l’uomo del nostro tempo non solo l’immagine arcaica di un Dio capriccioso che tutto può ma non sempre vuole ciò che è meglio per noi; l’idea stessa (e la pratica) della preghiera come impetrazione ha fatto il suo tempo, appartenendo a epoche in cui l’arbitrio divino (e anche l’imperscrutabile Provvidenza) potevano intervenire nella realtà fisica, scardinarne l’ordine complesso -anche se per noi doloroso – del mondo reale, produrre eventi straordinari. Ma allora, appunto, che spazio resta alla preghiera? Andrà abolita e cancellata dal vocabolario del credente?
Avanzo qui una riflessione che forse a qualcuno potrà sembrare troppo riduttiva, ben sapendo che nel vangelo si legge di Gesù che si ritirava in preghiera prima di compiere atti di premurosa guarigione e prima di cacciare i demoni e che questo prescriveva ai suoi discepoli incaricati di fare come lui. (Non apro qui la lunga parentesi, che sarebbe necessaria, sulla vera o solo immaginata natura “materiale” di quei miracoli e di quelle guarigioni, che non solo il teologo-psicanalista Drewermann ci ha invitato a interpretare in alcuni casi come eventi simbolici usati dagli evangelisti per esprimere per via di metafora dei precisi insegnamenti sulla potenza benefica della buona novella, in altri come sicuri interventi del “guaritore” itinerante Gesù capace di smuovere energie vitali congelate nel malato per suscitare una nuova reale e concreta volontà/capacità di vita piena).
Voglio dunque ricordare che la preghiera d’impetrazione e di scongiuro fu, per millenni, quella delle religioni politeiste che noi chiamiamo genericamente pagane. Ognuno aveva i propri dei di riferimento e a seconda delle circostanze offriva preghiere e sacrifici per ottenere protezione da mali e sciagure concreti e reali. E non è irrilevante segnalare a questo proposito che spesso le persecuzioni contro i cristiani furono scatenate in momenti di particolari calamità, fra cui proprio le pestilenze, perché questi si rifiutavano di partecipare ai riti pubblici e collettivi di scongiuro e impetrazione per la fine delle sciagure in corso. Questa non partecipazione procurava ai cristiani l’accusa di ateismo proprio perché in questo modo si assentavano da cerimonie civili che esprimevano il massimo della coesione sociale.
Mi pare giusto ricordare che la massima espressione della preghiera cristiana è piuttosto l’Eucarestia, cioè il ringraziamento (a Dio, al Mistero, all’Ineffabile… ognuno lo chiami come vuole) per il dono dell’uomo Gesù. I cristiani non pregano PER avere qualcosa, ma ringraziano DI aver avuto in dono l’uomo di Nazareth che, nonostante il vergognoso fallimento del calvario, proclamano il Vivente. E se proprio hanno qualcosa da chiedere, non è che Dio faccia qualcosa per loro: piuttosto chiedono a se stessi di avere la forza e il coraggio di imitare Gesù in modo da riuscire a servire gli altri. Per esempio, oggi, se sono medici o sanitari per curare i malati; se sono politici o amministratori per riuscire a prodigarsi per contenere il contagio; se sono addetti ai servizi per procurare alimenti e farmaci a chi ne ha bisogno; se non possono far altro, restare in casa per non infettare gli altri e spesso per accudire amorevolmente i familiari deboli o infermi, oltre che a ravvivare tutti insieme (col telefono, via computer, mediante i social e così via) l’intera comunità nel momento in cui essa è tentata di scoraggiarsi, col rischio di precipitare in una devastante depressione.
Voglio però aggiungere anche un’altra riflessione, perché la preghiera è per molti versi in stretta relazione col desiderio. E il desiderio è l’anima della speranza. Il vero desiderio è sempre speranza, se no è patetica illusione. Tutti noi desideriamo la fine del contagio e la guarigione dei malati: se no ci rassegneremmo al peggio senza fare nulla. E invece lottiamo. Ma desiderare, letteralmente, in latino significa attendersi che qualcosa discenda “de-sideribus”, cioè dai corpi siderali, dagli astri, insomma dal cielo. La parola desiderio insomma è preziosa, specialmente in momenti come questi, ma dobbiamo produrre una metamorfosi del suo significato. Non possiamo e non dobbiamo aspettarci che la fine dell’epidemia scenda dal cielo, ma – con tutte le energie che la forza potente del desiderio suscita in noi – lavorare su questa terra perché la nostra scienza e la nostra premurosa solidarietà attenuino il dolore di chi già soffre e impediscano che il virus faccia altre vittime. Sempre sperando che nessuno resti deluso se l’antico Dio dell’onnipotenza non dovesse ascoltare immediatamente la preghiera di papa Francesco. Ma anche, se il contagio non dovesse toccare Roma, scongiurando l’ipotesi infelice che qualche anima troppo devota fosse poi tentata di attribuire a Francesco questo miracolo: del resto l’epidemia prima o poi dovrà sicuramente finire.
GILBERTO SQUIZZATO, giornalista scrittore e regista, ha lavorato per più di trent’anni in Rai prima al telegiornale, occupandosi di cronaca, terrorismo, problemi economici e sociali, poi come autore e regista realizzando decine di reportage e documentari e undici serie di fiction e docufiction fortemente radicate nella cronaca e nella realtà. In particolare ha realizzato I racconti di Quarto Oggiaro, Atlantis, La città infinita, Il Tunnel, Suor Jo i gialli dell’anima. Con la fiction storica L’uomo dell’argine ha portato sullo schermo la vita e l’opera di don Primo Mazzolari. Ha vinto il Premio Flaiano per la fiction e il premio Saint Vincent, oltre a conseguire diversi altri riconoscimenti a Helsinki, Berlino, Ginevra e Venezia. Per sette anni ha insegnato giornalismo televisivo alla scuola Walter Tobagi dell’Ordine dei giornalisti di Milano e da diversi anni sceneggiatura e regia alla Scuola Nazionale di Cinema, a Milano.
Appassionato cultore di studi biblici e teologia contemporanea, ha pubblicato con Gabrielli editori la trilogia: Il miracolo superfluo (perché possiamo essere cristiani), 2010; Il dio che non è Dio (credere oggi rinunciando a ogni immagine del divino), 2013; Se il cielo adesso è vuoto. E’ possibile credere in Gesù nell’età post-religiosa?, 2017. Con Minimum Fax un saggio sul cristianesimo critico del XX secolo (Libera chiesa. Storie di cristiani a cui non è mai piaciuto il potere).